Tommie Smith, il velocista che prese a pugni il razzismo americano

Ultime notizie

MotoGP: a che punto è Marc Marquez?

Dopo i test di Valencia le aspettative erano altissime....

Superbike: cosa ci ha detto il primo round?

Il primo round della Superbike 2024 ha messo in...

Le nuove leve del tennis ATP: rivoluzione in atto?

Sono tanti i giovani tennisti che stanno raggiungendo i...

Superbike 2024: i big all’assalto di Bautista, ma attenzione ai rookie

Lo spagnolo cerca il tris dopo i titoli conquistati...

Share

In pista sono Tommie Smith, l’uomo più veloce del mondo. Una volta fuori, torno a essere solo un altro sporco nero“. Questo era The Jet, il primo uomo a scendere sotto i 20″ nei 200 metri. Ci riuscì in una serata d’autunno di Città del Messico. Erano le olimpiadi del 1968 e, certo, non potevano esse Giochi come gli altri. Quel giorno Tommie corse più di tutti, più di sempre. Uno sprint partito ben prima dei blocchi di partenza, molto prima che la fiaccola olimpica venisse accesa. La storia ha immortalato quel podio in una foto che è diventata uno dei simboli della lotta per i diritti civili degli afroamericani. Quella, però, era solo la punta dell’iceberg.

tommie smith
Tommie Smith e John Carlos

Olympic Project for Human Rights

Accanto a Tommie Smith che occupa la corsia tre, c’è un altro giovane afroamericano, John Carlos. I due già si conoscono e si sono scontrati più volte nelle gare di preparazione olimpica. Entrambi hanno ottime possibilità di sfondare il tetto dei 20 secondi. La velocità non è l’unica cosa ad accomunarli. Infatti fanno entrambe parte dell’Olympic Project For Human Rights, un comitato formato in prevalenza da atleti neri che chiede uguali trattamenti per gli atleti neri. Non un’associazione da quattro soldi: gli atleti minacciavano il boicottaggio olimpico, per togliere agli USA le medaglie che loro avrebbero conquistato.

Atleti come Tommie Smith e Carlos, erano spesso considerati alla stregua di cavalli da corsa. Nei college in cui questi atleti crescevano, venivano addestrati a correre: nulla poteva essere più importante di regalare una medaglia al proprio Paese. Anche se quest’ultimo non li considerava affatto cittadini come tutti gli altri (bianchi). Tra uno sprint e l’altro, però, quei ragazzi leggevano, discutevano, si confrontavano. Cresceva in loro la consapevolezza di essere più di semplici macchine da corsa: con la loro visibilità avrebbero potuto fare molto sulla strada del raggiungimenti di pari diritti.

Il manifesto dell’Olympic Project for Human Rights

Le richieste del Progetto Olimpico per i Diritti Civili, erano concrete e specifiche. L’esclusione di Sud Africa e Rhodesia dalle Olimpiadi per i loro regimi di apartheid, era tra queste. Chiedevano che venissero restituite le medaglie tolte a Muhammad Ali dopo che questi si rifiutò di combattere in Vietnam. Volevano che anche i neri potessero diventare allenatori delle squadre americane. Chiedevano le dimissioni dell’americano Avary Brundage: un razzista che aveva ottenuto la presidenza del CIO grazie al suo appoggio alle olimpiadi di Berlino del ’36. Pretendevano, inoltre, che il New York Athletic Club (che all’epoca contava 8000 iscritti, tutti bianchi) ammettesse anche atleti neri.

Tutt’ora, tra i 101 atleti della Hall of Champions del club, risultano solo tre atlete afroamericane. Le iniziative degli atleti ricevettero anche l’appoggio di figure influenti come Martin Luther King. Alla vigilia della partenza per il Messico, però, le cose precipitano. Il reverendo King viene assassinato e poco dopo, viene ucciso anche Bob Kennedy, altro sostenitore delle lotte per i diritti civili. Harry Edwards, professore di sociologia e mentore dell’Olympic Project For Human Rights, rinuncia ad accompagnare gli atleti dopo aver ritrovato i suoi cani uccisi davanti casa propria.

Tommie Smith e la spedizione americana

Perché correre in Messico, se dobbiamo strisciare a casa nostra?” Era la domanda che poneva Tommie Smith ai propri colleghi. Alla fine, gli atleti decisero di seguire la spedizione americana in Messico. L’unica vittoria significativa del Progetto fu l’esclusione di Sud Africa e Rhodesia dal CIO. I primi giorni dei Giochi si svolgono regolarmente, tanto che negli USA, la minaccia di boicottaggio sembrava ormai acqua passata. Fino a quella sera del 16 ottobre 1968.

Alla partenza dei 200 metri piani, oltre a Tommie Smith e John Carlos, ci sono i maggiori velocisti del mondo. Tra questi, anche l’australiano Peter Norman. La gara è entusiasmante e si decide tutta nell’ultimo sprint. Smith festeggia già negli ultimi due metri, mentre dietro di lui, il connazionale Carlos viene superato di un pelo da Norman. The Jet ha appena abbattuto il muro dei 20 secondi, è un nuovo record mondiale ma la sua esultanza si limita a un abbraccio e una stretta di mano con l’amico Carlos.

tommie smith john carlos

Un pugno alzato, dritto in faccia all’america wasp

Pochi minuti dopo il termine della gara, nel prato dello stadio è stato allestito il podio per la premiazione. Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos sfilano verso il centro dello stadio. Gli americani camminano con la mani dietro la schiena, tenendo le scarpe in mano. L’andatura lenta e solenne ricorda quella di una marcia; i braccialetti ai polsi, come le manette degli schiavi; le collanine, a ricordare i neri impiccati. La tuta blu di John è slacciata, in violazione del protocollo olimpico e sulla divisa di tutti e tre, (compresa quella del bianco, cattolicissimo e australiano Norman) campeggia la spilla del Olympic Project For Human Rights.

Gli americani salgono sul podio a piedi nudi, com’erano quelli degli africani che scendevano dai velieri schiavisti. Ricevono le medaglie come fossero macigni appesi al loro collo. L’unico a sorridere è Norman quando riceve l’argento. I tre si girano verso le bandiere che si alzano. Quando l’inno americano inizia a risuonare nello stadio, Tommie Smith abbassa la testa e fa scattare il braccio destro verso il cielo. Il pugno chiuso e avvolto in un guanto di pelle nera. Dietro di lui, John Carlos fa lo stesso. Lo stadio, pieno di spettatori americani, si gela improvvisamente. Quando la musica si spegne e gli atleti escono, una bordata di fischi e Boooo li travolge.

Peter Norman, Tommie Smith e John Carlos poco prima della premiazione

Le ritorsioni contro Tommie Smith e gli altri

Le ripercussioni non si fecero attendere. Tommie Smith e John Carlos vengono sospesi dalla nazionale e allontanati dal villaggio olimpico. In patria la situazione non migliora. Vengono isolati, abbandonati da tutti. Nessuno vuole essere accostato a due ‘traditori’, ‘sovversivi’ o ‘comunisti’ come vengono definiti dai connazionali. Anche le famiglie non si spiegano il motivo di quel gesto. A Smith viene impedito di terminare il college (dove aveva ottimi voti) e, pieno di debiti, prova la carriera nel Football Americano giocando per 3 anni come riserva dei Cincinnati Bengals.

Lettere, minacce di morte, familiari licenziati. I due finiscono nella lista dei 10 atleti più sovversivi e vengono costantemente pedinati dall’FBI. Nessuno dei due ritratterà mai quel gesto. Nel frattempo, anche Peter Norman deve fare i conti con la società australiana. Viene estromesso dalle successive olimpiadi e per questo si ritira dall’agonismo. Diviene presto dipendente dagli antidepressivi e all’alcool. Persino in occasione delle olimpiadi di Sidney del 2000, l’Australia gli dedicò pochissimo spazio, nonostante rimanga tutt’oggi il miglior velocista della storia australiana. Norman morì improvvisamente nel 2006, senza acer mai ricevuto in Patria il giusto riconoscimento. Al funerale, Tommie Smith e John Carlos ne portarono la bara: caricando il peso della sua memoria e della memoria del loro gesto.

spot_img